A cura di Eleonora Giannelli

Nel mondo contemporaneo sono compresenti i due “ingredienti” essenziali che permettono il verificarsi della dinamica del “capro espiatorio”: una situazione di crisi e una vittima facilmente designabile come “capro”, che ha la funzione di espiazione dei mali di un popolo. Ora, se pensiamo ai nostri tempi entrambe le condizioni sono presenti. Questa situazione ci pone di fronte ad alcuni interrogativi complessi, ai quali diverse discipline, tra cui la psicologia, cercano di dare una risposta. E’ infatti utile comprendere quali siano i meccanismi psicologici individuali e collettivi che sono coinvolti nel considerare l’altro diverso da noi come un nemico pericoloso da allontanare o sconfiggere. La maggiore consapevolezza può aiutarci a controllare la rivendicatività, l’aggressività e la rabbia.

Perché proprio i migranti ricoprono questo ingrato compito? Il capro espiatorio deve essere riconoscibile e differenziato dalla massa omologata, è facile che venga identificato in minoranze etniche o religiose. I migranti possiedono una cultura e una lingua diversa dalla nostra, in certi casi anche il colore della pelle è differente.  Questa alterità genera diffidenza verso il non noto. In situazione di instabilità, precarietà e crisi, difficilmente si supera la barriera della prima titubanza, anzi il “diverso” assume il compito di liberarci dal peso che stiamo vivendo. La rabbia, l’aggressività, la frustrazione, il senso di inferiorità, l’inadeguatezza, la vergogna rappresentano il “bagaglio” che un popolo possiede nel proprio collettivo, che ha un peso sempre più greve in situazione di crisi. Il passo che porta alla “liberazione”, anche se illusoria, è semplice, e ben studiato dalla psicologia analitica, e si attua attraverso il noto meccanismo della proiezione, tramite il quale riversiamo tutto ciò che non riusciamo ad accettare di noi allontanandolo dalla nostra coscienza, reprimendolo o rimuovendolo. Secondo la psicologia analitica, negare i nostri aspetti negativi e quelli del gruppo al quale apparteniamo genera senso di colpa e disagio inconscio. Il “male” viene vissuto come estraneo e diverso da sé e viene espulso, proiettato sul nemico. Noi vediamo nel capro espiatorio aspetti di noi che gli abbiamo attribuito. Il senso di colpa trova così una via di uscita e il male può assumere una forma e un corpo; liberandoci del nemico alimentiamo la vana speranza di liberarci del male che ci opprime. Ma sarà vero? Non è possibile eliminare ciò che è dentro di noi “buttandolo via”, all’esterno. Un semplice esempio è l’attribuzione di tratti di aggressività e violenza, che fanno parte della nostra identità e che vengono proiettati sul migrante che viene visto come pericoloso, aggressivo, possibile stupratore o ladro.

Che ruolo ha la crisi nella definizione di un nemico? La “crisi migratoria” tanto discussa dai media si inserisce in un contesto di crisi economica, politica e sociale (Graziano, 2018); il termine “crisi” indica uno stato di alterazione di un equilibrio. Pensando alla crisi “economica” del 2008, l’intensità e il suo protrarsi nel tempo, ha portato un nuovo assetto economico globale, caratterizzato da maggiore povertà e precarietà. La crisi, intesa su un piano “politico”, invece, è dovuta in particolare alle difficoltà delle istituzioni a essere rappresentative di bisogni e necessità del popolo; è in questo contesto sociale che i movimenti e partiti populisti hanno “facile presa” sul popolo. Infine, siamo immersi in una crisi “culturale” dovuta, in gran misura, all’incontro delle società occidentale con un flusso migratorio significativo che ha portato una trasformazione culturale.

Tali “crisi” generano un senso di precarietà e rovina che si concretizza in un popolo che ha perso il senso di empowerment, ossia ha perduto il senso di controllo delle proprie decisioni, azioni e della capacità di gestire quello che nella vita accade. Le popolazioni sono caratterizzate da una perdita di autostima e da sentimenti di frustrazione e insoddisfazione; tutto questo genera rabbia e aggressività. In questo terreno è facile rivolgersi a leader forti e carismatici, con tratti autoritari, per farsi guidare nell’incertezza, e vengono scelte delle vittime designate, che diventano i consueti nemici.

Qual è la funzione del nemico nel nostro contesto sociopolitico attuale? La visibilità del migrante favorisce la sua definizione come nemico e facilmente viene utilizzato per slogan politici che alimentano emozioni di paura. È meglio se i migranti “si mettono in mostra” chiedendo l’elemosina agli angoli delle strade, nelle vie principali o arrivando ammassati su barconi di fortuna; notiamo tanto la loro presenza quanto la loro “invadenza” (Reitano, 2018). È da notare, come la politica attuale induca di continuo la distorsione nella percezione della presenza di migranti, nel nostro e in altri paesi, attraverso la diffusione di “paure pubbliche” (Bauman, 2016). L’idea di essere nel mezzo di un’invasione, diffusa attraverso i mass media, porta le nazioni a difendere i propri confini nazionali e culturali, quasi fosse necessario tenere lontano l’“altro”, al fine di evitare contaminazioni identitarie e mantenere una purezza originale (Perera, 1993). A livello politico, il bisogno del nemico e l’utilizzo del meccanismo del capro espiatorio, assume quindi la dimensione di necessità, utile ad attivare la macchina dei consensi e a rafforzare il legame del popolo, disgregato e fragile per la crisi che vive, rafforzando il suo senso identitario. Non dobbiamo però scordare che ciò che attribuiamo al nemico ci appartiene, e che, ben lontani dall’innocenza, siamo “tutti noi” responsabili di tali contenuti.

BIBLIOGRAFIA

Bauman, Z. (2016). Stranieri alle porte. Bari: Editori Laterza.

Graziano, P. (2018). Neopopulismi: Perché sono destinati a durare. Bologna: ilMulino.

Perera, B. S. (1993). Capro espiatorio. Come l’emarginazione di pochi, maschera le responsabilità collettive. Como: Red.

Reitano, P (2018). Il capro espiatorio e la macchina del consenso. In Facchini, D. (cur). Alla deriva. Milano: Altra Economia.

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